11 aprile 1987

In Crimini e misfatti Woody Allen è un regista squattrinato che sta girando un documentario sul professor Louis Levy. Levy è un filosofo che "ha visto il lato peggiore della vita, ma ha sempre detto sì alla vita". Quando improvvisamente il professore si suicida, lasciando un bigliettino insignificante ("sono uscito dalla finestra"), il regista interrompe il lavoro: "Ho un sacco di pellicola su questo tizio che parla di quanto è meravigliosa la vita, ora tanto vale tagliarla e farci dei plettri per la chitarra".


Anche se Woody Allen ha sempre negato di essersi ispirato alla figura di Primo Levi ("è probabilmente presente a livello inconscio", ha detto), la somiglianza è significativa. Perché qualcosa del genere è successo per davvero. Dopo il suicidio di Levi, nell'aprile del 1987, il New Yorker scrisse che "l'efficacia delle sue parole è stata in qualche modo cancellata dalla sua morte". Questa frase così terribile, letta a 25 anni di distanza, può essere ormai tranquillamente smentita - le parole di Levi sono efficaci, e infatti continuiamo a leggerle -, ma ci dice molto sulle reazioni scatenate dalla sua morte.
Lavorando a Una stella tranquilla, ho iniziato proprio disegnando le pagine sul suicidio di Levi. Anche in questo caso non avevo nessuna intenzione di mostrare la sua morte, per cui ho disegnato tutto quello che le sta intorno: una scena dal telegiornale di quel giorno, gli articoli di giornale... il massimo che ho pensato di concedere al dramma è il disegno qui sotto.
Il suicidio rientra nella sfera privata della vita di Levi, quindi riguarda il Levi uomo, mentre nel libro io parlo del Levi scrittore. Sono due cose diverse. A me interessa la figura di Levi come lui l'ha raccontata, come emerge dai suoi libri e dalle sue interviste. Mi interessa la sua "immagine pubblica",  e mi interessa il modo in cui lo ricordiamo adesso (ma di questo magari parlerò meglio in un altro post). Insomma, più che parlare del suicidio io volevo parlare delle reazioni al suicidio. C'è qualcosa di evidentemente irrisolto in tutta la questione, se a distanza di tanti anni la morte di Levi si riaffaccia periodicamente sulle pagine dei giornali, sempre accompagnata dalle parole "mistero" o "enigma". C'è qualcosa di irrisolto se tutti quelli a cui ho parlato del mio lavoro su Primo Levi ci hanno tenuto a espormi le loro idee sul suicidio o a chiedere a me il perché di quel gesto.

Io però so solo quello che ho letto nelle altre biografie: la mattina dell'11 aprile 1987 Levi si è ucciso gettandosi nella tromba delle scale del palazzo in cui abitava. Senza lasciare nessuna lettera o biglietto di addio (almeno a quanto ne sappiamo). Era una cosa che non ci si aspettava da Levi, e questo negli anni ha suscitato diversi tipi di reazioni. C'è la reazione degli altri testimoni, degli altri sopravvissuti al lager, che è riassumibile nella frase "Non ne aveva il diritto". Poi ci sono quelli che negano il suicidio e parlano invece di un incidente (la più famosa era Rita Levi Montalcini). E ancora ci sono quelli che tentano di spiegarlo: tra le cause si mettono di solito il lager, la depressione, il peso nell'assistere la madre malata. Infine c'è chi si limita a citare una frase dello stesso Levi: "Particolarmente difficile è penetrare il perché di un suicidio, poiché, in generale, il suicida stesso non ne è consapevole".

Probabilmente nessuna di queste spiegazioni viene considerata soddisfacente, visto che nel tempo si sono diffuse diverse storie che citano invece altre cause. Anche queste mi sono state raccontate durante il lavoro su Una stella tranquilla, e sono proprio delle leggende urbane. Quella mattina Levi aveva appena ricevuto la posta, così tutte queste storie parlano di una lettera che avrebbe sconvolto lo scrittore tanto da spingerlo a uccidersi. In una versione, la lettera contiene la notizia di una malattia incurabile. In un'altra (la più assurda) la lettera rivela che Levi avrebbe inconsapevolmente collaborato allo sterminio degli ebrei lavorando come chimico nel lager di Monowitz. È abbastanza chiaro che queste storie nascono e si diffondono per rimettere insieme qualcosa che non funziona, una narrazione che "non torna". Levi, che nell'immaginario comune viene considerato di solito un uomo ottimista, che amava la vita, non sembra uno capace di uccidersi. In più il suo suicidio toglie il lieto fine alla storia del sopravvissuto ad Auschwitz che riesce a tornare alla vita.

In realtà, leggendo bene l'opera di Levi (soprattutto le poesie e alcune interviste), il suicidio non risulta poi così impensabile. Me ne sono accorto lavorando all'ultimo capitolo del libro, che va dal 1978 al 1987. Levi diventa più pessimista, accenna per la prima volta alla depressione di cui soffriva, alle sue fragilità, al fatto di non essere un uomo "equilibrato" come si era dipinto in tutti i suoi libri. Contemporaneamente, nelle poesie di quel periodo emerge un certo disagio nei confronti della vecchiaia, pure se Levi aveva poco più di 60 anni e oggi non lo considereremmo certo "vecchio".
Insomma dietro l'immagine "ottimista" di Levi ne affiora un'altra, molto più privata, che però non conosciamo bene e che difficilmente potremo mai conoscere. Per questo ci tengo così tanto a separare l'uomo dallo scrittore. Per me, che scrivo 25 anni dopo l'11 aprile 1987, quello che conta, quello che posso conoscere, è il Levi scrittore. Ed è questo che ho provato a raccontare.